Del lasciare l’Islanda

La strada che collega Akureyri, capitale del nord del Paese, a Reykjavík è lunga poco più di trecento chilometri: circa un quarto della Strada Numero 1, l’anello che corre tutt’intorno all’Isola.

È una fredda, gelida, giornata di Gennaio: il vento, nella regione del Nord, soffia forte ed è previsto l’arrivo di una forte tormenta di neve. I passi montani rischiano di chiudere da un momento all’altro e, a me, non resta che improvvisare quel mio, secondo, addio all’Islanda: è questione di giorni e, da Reykjavík, raggiungerò le mie amate Isole Faroe.

Una macchina, una monovolume blu completamente ricoperta di polvere, ha, da poco, imboccato la strada che porta alla fattoria: è ora di andare.

Ho lasciato l’Islanda la prima volta nel marzo di qualche anno: le brughiere avrebbero presto indossato le loro vesti primaverili, la neve, fatta eccezione per quella che, ancora, si raccoglieva sulla cima degli altopiani, aveva, ormai da qualche settimana, ceduto il posto ai primi verdi.

Ho poi salutato, a sua volta, quella inaspettata primavera paragonandola, nel suo gioco di verdi, gialli e bruni delle brughiere in primavera, al colore di un paio di occhi che, tanto, avevo amato in passato.

Ora, una processione di macchine procede a passo d’uomo lungo la strada innevata: la tormenta si sta abbattendo sull’altopiano, il passo di montagna Öxnadalsheiði sarà, presto, chiuso ed è verosimile che la nostra sia una tra le ultima macchine a cui viene concesso di poter passare.

Fuori dal finestrino è il bianco: Akureyri, Ytri-Bægisá e le acque, in buona parte ancora ghiacciate, del fiume Hörgá sono scomparse, ormai da qualche ora, nello specchietto retrovisore, inghiottite dalla neve.

A guidare è Hálldor, manager per una ditta che opera nel settore della pesca. Il suo lavoro lo porta a viaggiare per tutto il Nord Europa e, negli anni, ha vissuto un po’ ovunque: Danimarca, Islanda, Norvegia e, per qualche mese, anche a Ilulissat, nel nord della Groenlandia.

Nel sedile posteriore, in silenzio, siede E., non parla inglese e tiene gli occhi fissi sullo schermo dello smartphone: per lei, l’Islanda non è che un semplice scalo e, nei prossimi giorni, partirà alla volta del Canada, poi del Messico e, ancora, verso l’Africa prima di tornare, fra un anno esatto, a Lione.

Io e Hálldor, a breve, inizieremo una conversazione sulla pesca e la caccia alle balene: abbiamo, come intuibile, opinioni contrastanti, ma la conversazione andrà avanti in maniera pacifica e sarà, a suo modo, costruttiva.

Ho modo di origliare una chiamata che Hálldor mette in vivavoce, mi accorgo di riuscire a capire qualche parola di Islandese: non ho, certamente, la pretesa di saperlo parlare, ho qualche base di norvegese e, in qualche modo, il mio orecchio deve essersi allenato a riconoscere qualche similitudine tra le due lingue.

Non si direbbe, ma sono passati tre mesi dal mio arrivo in Islanda: il tempo è letteralmente volato e solo dopo un vago tentativo di posizionare gli eventi salienti di questo soggiorno su di una, immaginaria, linea del tempo, mi accorgo di quanto questi siano effettivamente distanti.

Poco fa, Hálldor ha menzionato la terribile tempesta che, quasi due mesi fa, ha paralizzato l’intero Paese: lui si trovava via per lavoro, ma ne descrive gli effetti e la durata con un rigore quasi matematico.

Io, che pure ero qui, non ricordo quasi nulla se non che dopo tre giorni di tempesta, il cielo si era schiarito all’improvviso, le brughiere, bianche di neve, riflettevano la luce azzurra dell’ultima luna piena dell’anno e tutto era così bello che, della tempesta, me ne sarei presto dimenticato.

Intanto, fuori dal finestrino, ricompaiono i colori delle brughiere: il bruno, tendente al nero, della terra d’Islanda, qualche sporadica pennellata di neve, il grigio ambrato dell’erba morente e, inaspettata, qualche macchia di verde.

Ed ecco che, prima che la luce del tramonto arrivi, come un alleato inatteso, a falsare quei colori, nel paesaggio Islandese tornano a farsi vivi quegli occhi che, da tempo, dovrei aver dimenticato.

Questa volta, però, non fa male, è un pensiero atteso e, forse, volontario: è il bello, tutto il bello del mondo che, da quel paio di occhi dove lo avevo lasciato, torna lentamente al suo posto.

Sono, ormai, le quattro del pomeriggio: il sole inizia la sua lenta discesa mentre il cielo vira, a poco a poco, verso un color rosa intenso; le montagne si tingono di una calda luce dorata e, per un’istante, sembra che fuori non faccia così freddo.

Sopra l’orizzonte, Venere, la falsa stella, brilla più luminosa che mai nel cielo color indaco.

La via è ora un lungo rettilineo che, dalle brughiere dorate, conduce verso l’azzurro del crepuscolo: la macchina scivola silenziosa nella via della sera,

Presto sarà buio.

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