Un nuovo inizio, Islanda

Sono i primi giorni di tregua dopo il ciclone che, per due giorni, ha imperversato su tutta la costa Nord del paese: nel cielo,ancora parzialmente coperto si intravede, saltuariamente, qualche tenue chiazza d’azzurro.

Più che di un azzurro, si tratta di un color grigio plumbeo, a tratti tendente all’indaco, simile, per certi versi, a quello che di norma precede i temporali estivi.

È il 14 dicembre e le giornate, già brevi, vanno ancora accorciandosi: riprenderanno, lentamente, ad allungarsi solo fra un paio di settimane.

Una tenue linea di luce rosata inizia ad accarezzare le cime delle montagne appena prima di mezzogiorno e, prima ancora di avere il tempo di sfumare verso l’azzurro, è già il momento del tramonto e quelle stesse cime tornano a risplendere nella tenue luce del crepuscolo.

Intanto c’è la neve.

I dintorni sono, infatti, coperti da un muro bianco che raggiunge, in alcuni punti, i due metri d’altezza ma che di tanto in tanto lascia intravedere un po’ di quell’erba giallastra tipica delle brughiere islandesi: è un muro di neve fine e polverosa che, trasportata dal vento, ha finito per accumularsi in modo irregolare.

La corrente elettrica non è ancora tornata: le luci si sono accese per un paio di secondi ieri sera, ma poi è tornato il buio. Pare che nella giornata di domani arriverà un generatore diesel ma, intanto, la casa è al buio ed i riscaldamenti, anch’essi elettrici, non funzionano.

Fuori la temperatura è di dieci gradi sotto lo zero e i miei scarponi, umidi di neve, sono ancora congelati ed inutilizzabili. In casa, però, le cose vanno meglio: c’è una stufetta a gas, un fornelletto, pane, pasta e, oggi, pancakes. Il termometro segna qualcosa come otto gradi, con picchi di 12 nel pomeriggio e c’è chi si chiede come faccia a stare in maglietta a maniche corte; io sorrido e do la colpa ai miei precedenti viaggi nell’Artico ma, da che io ricordi, ho sempre avuto la fortuna di non soffrire troppo il freddo.

Sul mio profilo Instagram, intanto, si affollano i messaggi: c’è chi mi chiede come sto, come sono questi giorni di “campeggio obbligato” e c’è chi, invece, mi chiede “artisticamente” come sia stato assistere alla tormenta. Mi piace che qualcuno là fuori mi consideri ancora un artista, o perlomeno, come un individuo in grado di esprimersi in materia d’arte.
Tutto sommato la ritengo, ancora, una (grande) parte di me.

Cerco, pertanto, di formulare una risposta che sembri quantomeno intelligente; afferro un piccolo foglietto di carta su cui ho raccolto i miei pensieri degli ultimi giorni e trovo quello che stavo cercando: è un breve pensiero che ho scritto nella fase peggiore della tempesta, quando le finestre sembravano sul punto di essere strappate via dal muro.

“Il mondo non è mai stato bello quanto nel momento in cui la neve cercava di farlo a pezzi”.

La rileggo, cercando di eliminare gli eccessi romantici che spesso mi vengono fatti notare, ma concludo che la frase va bene così e che, artisticamente io, un romantico, lo sono davvero.

Però non ho più una connessione internet.

[…]

Suona il telefono.

-Hey

Rispondo con un “HeyHey”, una ripetizione che sono tre anni che sento qui in Scandinavia e che ho finito per adottare anch’io, se non altro per dissimulare una qualche appartenenza a questo mondo che, ancora, non riesco a sentire come mio.

Dall’altra parte silenzio, poi, in norvegese, arriva la domanda: Come stai?

Io il norvegese ho smesso di studiarlo, come lei che, del resto, nemmeno lo ha mai parlato. Per sua fortuna, dal feroese e dal danese può imparare facilmente qualsiasi altra lingua scandinava.

Rispondo cercando di sminuire, dico che la tempesta è stata davvero intensa e che, nel mentre, ho persino avuto del tempo per pensare a me stesso.

– e a che conclusioni sei giunto?

Io, però, sono troppo impegnato a giocare con il bastoncino fluorescente che sto usando per orientarmi nel buio delle quattro del pomeriggio: ricorda vagamente una spada laser e io sto, effettivamente, camminando per i corridoi bui fingendo di essere un cavaliere Jedi.

Non ci starebbe male una storia quindi, con una voce a metà tra l’annoiato ed il supplichevole, ne chiedo una. O meglio, un pezzo: il mito è piuttosto lungo da raccontare e, a me, interessa solo che lei arrivi a parlare di Gleipnir.

A dire il vero, conosco la storia a memoria. Pare che per forgiare quella catena, sottile come un nastro di seta ma estremamente resistente, i nani avessero dovuto utilizzare i più segreti degli ingredienti: la barba delle donne, il respiro dei pesci, il rumore dei passi dei gatti, e tanti altri.

Lei, però, la racconta meglio: non può trattenersi dal pronunciare quella parola, Gleipnir, con la pronuncia feroese, un groviglio di consonanti che scorrono morbide le une sulle altre. Mentre parla, ho davvero l’impressione che un sottile nastro di seta le scorra dalle labbra per poi finire, inesorabile, per cingere ogni cosa.

Ho provato a fare mia quella pronuncia per anni ormai, senza successo.

Nel racconto in inglese che ormai ho smesso di ascoltare, Gleipnir è una parola che brilla di luce propria.

Ora tocca a me raccontare una storia, una che mi riguarda.

Inizio a raccontare di questi ultimi tre anni, delle decine di aurore boreali che ho visto e di quella volta che ho incontrato un orso polare, ma vengo, bruscamente, interrotto.

Vuole sapere della mia prima volta nel Nord, ma quella è una storia che, con me, ha poco a che fare.

[…]

Ricordo con affetto le pagine del mio primo tentativo di scrivere un libro, prima di tagli, menzogne ed epurazioni.
E sono sicuro che, sebbene in una traduzione in inglese maccheronico, anche dall’altra parte della cornetta la ricordano.

Però adesso è tardi, fuori è buio e si vedono le stelle: riaggancio e mi preparo ad uscire.

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