Se una notte d’inverno dovessi dimenticarmi di pensare

è una fredda giornata d’inverno nell’Islanda meridionale: la casa, una piccola fattoria da poco riqualificata, ospita cinque studenti islandesi, qualche lavoratore stagionale, K. , la mia compagna di stanza, e, ovviamente, ci sono anch’io.

Le festività si stanno avvicinando e, nel piccolo disimpegno che collega le varie stanze, una sorta di filtro comune, sono appesi due grossi pezzi di carne d’agnello il cui odore, acre e pungente, si è presto diffuso per tutta la casa.

Con il sorgere del sole che si fa imminente, io e K. ci lasciamo la fattoria alle spalle: è una lunga escursione quella che ci aspetta, la fonte termale è a circa 6 ore di cammino dalla fattoria e, per allora, si sarà già fatto buio.

K. si infila i pesanti scarponi e chiude la robusta porta di legno dietro di sè.

Il terreno, gelato, si spezza sotto ai passi di K.: è un procedere incerto, difficile, lungo quello che, in un qualche remoto passato, doveva essere stato un sentiero. La brughiera, dorata, è ricoperta da uno sottile strato di brina che va riflettendo la calda luce dell’alba: sono da poco passate le undici del mattino.

L’Islanda, un’immensa distesa bruna, si apre davanti ai nostri occhi: si vede, in lontananza, solo qualche -bassa- montagna isolata, forse qualcuno di quei famosi vulcani di cui tanto parlano le brochure, dalle cime leggermente imbiancate.

Ci sono, almeno così dice K., dodici gradi sotto lo zero e, anche per gli standard islandesi, è una giornata fredda: il vento, lieve, porta con sè il sapore, vagamente metallico, della neve.

Solo dopo qualche ora di cammino, quando il cielo – coperto – inizia a virare lentamente verso i colori del tramonto, ci fermiamo per delle foto: i piedini metallici del cavalletto -uno dei quali andato perduto e sostituito, ora, da una grossa vite – scavano nel terreno gelato.

La terra, rossa all’inizio, si fa via via più scura: è ora nera, vulcanica.

L’Islanda è, geologicamente, un paese giovane: il paesaggio delle brughiere è, ancora, un’incompiuto, un’opera in continuo divenire cui, l’eruttare dei vulcani ed lo scorrere rapido dei ghiacciai vanno, di continuo, ad aggiungere qualche rapida pennellata.

Di tanto in tanto, poi, qualche fenomeno un po’ più intenso dei precedenti, ne stravolge completamente l’apparenza.

Ora, però, si sta facendo buio: la brughiera, sconfinata, si tinge d’azzurro prima di scomparire nel buio della sera: ricomparirà, a frammenti, nei coni di luce disorientati delle nostre torce.

Ad indicarci la via sarà, di lì a poco, un vecchio cartello arrugginito: mancano solo 50 metri alla pozza e l’odore acre, ma a tratti quasi gradevole, si va facendo via via più intenso.


Il tempo di sedersi, ed inizia a nevicare: è la mia prima neve Islandese, leggera e ghiacciata: foschia vinta dal gelo.

Ed il gelo non tarderà ad arrivare: la fonte termale è una benedizione, ma è piccola, a stento riusciamo ad entrarci entrambi. Un -secondo- cartello, non meno arrugginito del primo, dice che l’acqua ha un temperature che varia dai 35 ai 50 gradi. Le rocce sul fondo scottano.

K. fa per entrare in acqua, attraversa la nube di condensa – l’odore acro non dà più fastidio- si sistema il costume, intero, e, finalmente, si immerge.

I lunghi capelli biondi, le scivolano ora lungo le spalle e, tra questi, si imperlano ora i primi fiocchi di neve.

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